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Transgender, Parte 1 «Oh, pensavo che stesse arrivando un uomo»
Bruno Bötschi
11.2.2020
Già in giovane età, Jenny, Lena e Nadia sentivano di essere delle ragazze, sebbene fossero cresciute come dei ragazzi. Un’intervista in due parti sulla loro vita, il coming out come «trans» e le parole tabù.
Jenny, Lena e Nadia, quando vi siete rese conto che il vostro aspetto esteriore non corrispondeva alla vostra identità interiore? O in altre parole, quando avete capito di essere «trans» ?
Lena: Per molto tempo non ho saputo cosa significasse «trans». Quando da adolescente iniziai a indossare vestiti femminili di tanto in tanto, ebbi per la prima volta la sensazione di avere un feticcio. Solo con il passare degli anni mi sono resa conto di sentirmi una donna e di esserlo.
Nadia: Da bambina scoprii delle cose che trovavo affascinanti, ma alle quali non avevo accesso e allora mi si diceva che non andava bene, che non faceva per me.
Di che genere di cose parla?
Nadia: Parlo di giocattoli, da bambina non osavo avvicinarmi a vestiti o gioielli. Ho manifestato timidamente il mio interesse perché dentro di me sentivo che questo non era ben accolto dai miei genitori. Al tempo stesso mi chiedevo perché non potessi giocarci. A un certo punto iniziai a pensare che ci fosse qualcosa di sbagliato in me.
Cosa è successo in seguito?
Nadia: A dieci anni iniziai a fare ricerche concrete: che cos’è? Come si chiama? All’epoca, ovvero 40 anni fa, era difficile ottenere tali informazioni.
Jenny: Non ci si rende conto subito di essere «trans». A un certo punto ho sentito che c’era qualcosa di diverso, qualcosa di bello e pressante. Mi sentivo irritata e molto insicura, ma inizialmente non sapevo di cosa si trattasse e come dovessi affrontare la situazione. Forse molte persone conoscono questa sensazione: si percepisce qualcosa, la si cerca e a un certo punto, spesso dopo molta resistenza, la si trova e ci si sente sicuri e a proprio agio. Tuttavia, prima di arrivare a questo, per molto tempo mi sono sentita la persona più sola al mondo.
Avete tutte vissuto pubblicamente come uomini per decenni ...
Jenny: ... non è proprio così: per decenni sono stati gli altri a pensare che fossimo uomini.
Come siete arrivate a fare outing?
Jenny: In modo lento e costante.
Nadia: Nel mio caso, il coming out è avvenuto in più fasi. Inizialmente mi sono impegnata a farlo nei confronti di coloro che la pensavano come me. Il passo più importante è stato dirlo alla mia famiglia e ai miei amici. La prima persona a cui l’ho confessato è stato il mio migliore amico, con cui all’epoca ne avevo passate di tutti i colori. Io conoscevo tutti i suoi segreti e lui i miei. Scelsi lui perché ero certa che sarebbe andata bene se l’avessi rivelato a lui per primo.
Come ha reagito il suo amico?
Nadia: Era quasi euforico, il che è stato molto bello.
Fare outing non è facile.
Nadia: Sì, fino a quando non mi sono sentita pronta, ho sempre avuto la coscienza sporca, ma al tempo stesso mi sembrava di avere tutto sotto controllo. Mi dicevo che se non volevo parlare del tema “trans”, questo argomento non esisteva. Questa si è rivelata una falsa conclusione. Più il tempo passava e più percepivo una forza in me: quando mi opponevo a questa, faceva male. Quando invece mi ci lasciavo andare, mi sembrava di fare la cosa giusta. Sentivo sempre più di essere sulla strada giusta e di doverlo dire alla mia famiglia e ai miei amici.
Quali termini utilizzate oggi per descrivervi?
Lena: Sono una donna trans e questo spiega tutto.
Jenny: Anch’io mi definisco una donna trans.
Nadia: Per me “transgender” è il termine più generico e più bello e sebbene sia inglese, è diventato di uso comune ed è neutro e non dispregiativo.
In inglese l’abbreviazione LGBTIQ sta per lesbica, gay, bisessuale, trans, intersessuale e queer. A volte si aggiunge anche una A+ in modo che anche gli asessuali si sentano inclusi. Sembra piuttosto complicato, vero?
Lena: Forse è complicato per un normale cisgender che sente il termine per la prima volta.
Nadia: Per me è un grande onore che nel frattempo la «T» sia stata aggiunta all’abbreviazione che inizialmente era composta solo da due lettere, LG, quindi «lesbica» e «gay». Solo con il passare degli anni sono state inserite anche la «B» e la «T». Ricordo bene quando, nel 2007, l’allora sindaco di Berlino Klaus Wowereit utilizzò il termine LGBT per la prima volta durante un suo discorso in occasione del Pride di Zurigo. Tremavo sia per la soggezione che per la gioia.
Per lei è stato questo il segnale che l’espressione era entrata nella società?
Nadia: Da un lato era entrata nella società, dall’altro era però meglio ancorata alla comunità.
Jenny: I gay e le lesbiche hanno dovuto nascondersi per molto tempo e non potevano attirare l’attenzione. I moti di Stonewall del 1969 a New York hanno avuto delle conseguenze particolarmente positive e tutto questo è stato ottenuto da vivaci persone trans! Gli omosessuali hanno poi sfruttato questa ondata positiva. Per noi trans ci è voluto un po’ di più, ma ora ci siamo anche noi e siamo visibili. Oggi sento di appartenere alla società. E questa è una buona cosa.
Dove e quando vi siete conosciute voi tre?
Lena: Io e Jenny ci conosciamo da 15 anni, conosco Nadia da un po’ meno tempo. Io e Jenny ci siamo conosciute in occasione di un incontro di transgender dell’associazione «Girls wanna have fun», in breve GWHF, a Wangen an der Aare.
Nadia: Prima dell’avvento di Internet era abbastanza difficile incontrare persone con la stessa mentalità. Anche se esistevano già gruppi e associazioni, iscriversi era complicato e la comunicazione avveniva di solito tramite posta. Con Internet la nostra comunità è diventata più vivace.
In Svizzera esistono luoghi di ritrovo per trans o addirittura bar e discoteche come per i gay e le lesbiche?
Lena: Non conosco nessun bar o ristorante frequentato esclusivamente da trans. Tuttavia, in molti locali esistono dei tavoli fissi in cui ci incontriamo regolarmente.
Jenny: Penso che sia un bene il fatto che non ci siano luoghi esplicitamente riservati ai trans. Ci consideriamo parte della società e desideriamo essere visibili ovunque e poter andare ovunque.
Nadia: Mi piacerebbe che ci fosse un locale del genere ma forse il nostro gruppo target è troppo piccolo per un bar per transgender. Personalmente mi sento molto a mio agio nella comunità queer.
Il grande interesse dei media per i trans ha spinto il Transgender Network Switzerland (TGNS) a redigere delle linee guida per i media. Queste sono state create perché spesso i trans vengono rappresentati in modo sbagliato dai media?
Jenny: Le linee guida vogliono essere un aiuto. Illustrano ai trans a cosa dovrebbero fare attenzione, in modo che vengano presi sul serio e non siano ritratti in modo errato o addirittura offensivo. Inoltre aiuta la persona che intervista a capire e a porre le domande con attenzione.
Leena: Al giorno d’oggi, molti non conoscono ancora la differenza tra «drag queen» e «transgender». Questo continua a creare malintesi e così i trans i sentono feriti. È un bene che esista questa guida.
Nadia: Ci sono delle parole sul tema «trans» che ci piace sentire e altre che non ci piace sentire. A volte si tratta di una sola lettera che trasforma una parola in un insulto.
Immagino che parli della parola «transe» (in tedesco, con la e finale, è una parola offensiva, n.d.r) ...
Nadia: ... questa parola è assolutamente tabù.
Lena: Quando ero seduta in un bar mi è stato anche chiesto se stessi partecipando a un addio al celibato. Anziché sentirmi attaccata, in queste situazioni cerco di dialogare con le persone. Ci sono delle opportunità che colgo volentieri e dalle quali spesso sono nate conversazioni meravigliose. Sì, voglio essere considerata una donna nella vita di tutti i giorni. E chi ignora questa richiesta mi ferisce profondamente. Quando qualche anno fa ho fatto outing con la mia partner di lunga data, lei mi ha chiesto: cosa dovrei fare adesso?
E lei cosa ha risposto?
Lena: Non devi fare niente, sono comunque la stessa persona. Il mio unico desiderio è che d’ora in poi mi chiami Lena e che ti riferisca a me al femminile.
Jenny: Per me il pronome femminile è molto importante. Esistono anche dei transgender che non vogliono che si usi alcun pronome. Ammetto che a volte non è semplicissimo ma penso che sia importante soddisfare queste richieste.
Ha già fatto outing sia privatamente che professionalmente?
Lena: Non ho fatto outing in famiglia e l’ho fatto solo in parte nel lavoro. Opero nel campo della cultura e poiché anche nel mio tempo libero ho a che fare con la cultura, non posso controllare chi incontro. Tuttavia, mi va bene che nel mio ambiente professionale molti mi conoscano come Lena ma anche come persona di sesso maschile.
Nadia: Nella vita privata vado in giro come persona di sesso femminile. Nel mio lavoro, cioè quando si tratta di incarichi ufficiali come la negoziazione o la firma di un contratto, continuo a essere un individuo di sesso maschile. A volte mi lascio trascinare in base alla simpatia e alla confidenza. E quando vado in giro da uomo e qualcuno mi dice «Oh, pensavo che stesse arrivando un uomo», questo è ovviamente un bel complimento. Dimostra che anche da uomo vengo considerata una donna.
Jenny: Non voglio rispondere a questa domanda in questo modo. Non mi è chiaro cosa significhi. La domanda è piuttosto: cosa spinge a fare outing? In altre parole, cosa voglio ottenere? Mi aiuterà, mi libererà, mi farà andare avanti? Quali sono i pericoli di fare outing o cosa mi spinge a farlo? Noi transgender dovremmo quindi fare outing in modo da poter vivere come siamo. Lo trovo strano. Non lo si chiederebbe mai a un cisessuale.
A un certo punto venne il giorno in cui Nadia si sedette improvvisamente sulla sedia. Come le è venuto in mente il suo nome da donna?
Nadia: È stato un processo più lungo. Curiosamente da bambina non mi sono mai data un nome femminile. In seguito ho iniziato a provare e a valutare diversi nomi. È bello poter scegliere il proprio nome. Non ricordo più come alla fine sia arrivata a Nadia. Quando però mi sono iscritta a un gruppo via e-mail sapevo di dovermi dare subito un nome femminile.
Jenny: Quando feci outing per la prima volta molti anni fa, la persona che avevo davanti mi chiese: «E come ti chiami?». Rimasi muta perché non sapevo cosa rispondere. Poi andai a casa, dove mi venne in mente il nome «Jenny». Mi piacque subito e anche la storia del nome era adatta a me, aveva un bel suono e mi sentii a mio agio.
Lena: Prima di partecipare a un incontro di transgender andai da un’estetista. Si era specializzata nella consulenza alle persone transessuali e possedeva, tra le altre cose, una grande quantità di parrucche. A un certo punto mi chiese: «E come ti chiami?». Rimasi stupefatta e domandai: «Cosa intendi?». Allora mi rispose: «Ora sei una donna e ti serve un nome femminile.» Non diedi immediatamente una risposta, ci misi un po’ di tempo a scegliere un nome da donna.
Quali sono state le esperienze positive durante il vostro coming out?
Nadia: Ho avuto esperienze estremamente positive. Dopo essermi nascosta per tanto tempo, la vita mi è finalmente venuta incontro. Mi si sono aperte molte porte, ho conosciuto molta gente nuova di cui ignoravo l’esistenza. Ci sono state molte sorprese positive, molte di più rispetto a quelle negative. Realizzare che la mia paura era infondata è stata per me una liberazione.
Lena: La mia esperienza è stata simile. Tutto ciò che arrivava era nuovo ed era fantastico. Ma ancora più importanti sono stati tutti gli amici che mi hanno conosciuto come uomo e che mi hanno dato ancora più importanza dopo l’outing.
Jenny: Io ho trovato la positività anche in me stessa: nella sicurezza e nella gioia - e anche nell’essere fiera che la mia forza interiore aumenta e di essermi avvicinata a me stessa.
Quand’è che una donna è una donna?
Lena: Bella domanda. Personalmente, risponderei così: sono nata uomo e so come ci si sente. Non so cosa provi una donna cisessuale, ma so bene che la sensazione che provo non è quella di essere un uomo.
Volete che la gente vi consideri donne o donne trans?
Jenny: Donna.
Lena: Idem.
Nadia: Femmina.
Jenny: Scusi mi correggo: voglio essere considerata una persona.
Quindi, in sostanza le donne trans hanno più difficoltà rispetto agli uomini trans?
Nadia: Per gli uomini trans i primi passi forse sono più semplici, perché danno meno nell’occhio, mentre i primi passi da uomo a donna sono piuttosto sgradevoli, perché si hanno caratteristiche fisiche che si potranno correggere e limare solo più avanti. Al contrario, gli adattamenti dal punto di vista medico sono più bruschi per gli uomini trans che per le donne trans. Per quanto riguarda la voce, sono sempre stata un po’ invidiosa degli uomini trans, perché per loro è più facile. Tuttavia è la mia sensazione personale e sarebbe ovviamente una presunzione dire che per alcune persone è più facile o più difficile.
Jenny: Non credo che per noi donne trans sia più difficile rispetto agli uomini trans. Per quanto riguarda il processo che ciascuno di noi attraversa personalmente, ci sono momenti più facili e più difficili. E un’altra cosa: sono un essere umano. E ciò esclude la visione sociale di come si debba e non si debba essere. Quindi rispondo così alla sua domanda: mi piace guardare le persone, mi piacciono le persone. E mi piace stare a contatto con la gente senza preferenze di genere.
Si dice che i transgender attraversino una sorta di seconda pubertà. Non solo fisica, ovvero tramite una possibile terapia ormonale, ma anche attraverso le cose nuove che devono imparare: quali sono i codici tra le donne? Ci sono regole negli spogliatoi? Come ci si guarda? Chi vi ha insegnato tutto questo?
Lena: Già alle elementari stavo prevalentemente con le ragazze e avevo sempre amiche con un debole per i tipi effeminati. Quindi in realtà ho sempre saputo come funziona tutto questo.
Nadia: I codici degli uomini mi hanno sempre disgustato all’estremo. Al contrario mi interessavano parecchio quelli delle donne. Per me la seconda pubertà è stata come ho accennato poco fa: si inizia con zero fiducia in se stessi e zero esperienza. In pratica si tratta di «luoghi di formazione» conquistati con fatica, in cui si incontrano persone fantastiche che possono insegnarti anche dettagli importanti, ad esempio come cammina una donna: questo mi è stato mostrato in una sessione di allenamento nel cuore della notte a Zurigo, tra due isolati.
Quanto sono difficili i rapporti con le autorità quando si decide di cambiare nome e sesso?
Lena: Nel Canton Zurigo è diventato più semplice: basta compilare un modulo.
Nadia: Bisogna però distinguere tra identità sul documento d’identità e quella sul certificato di nascita. La prima modifica può essere decisa dall’anagrafe, mentre per la seconda è necessario un certificato medico e un’ordinanza del tribunale. Negli ultimi anni, tante cose sono diventate molto più semplici, ma c’è ancora molta arbitrarietà nelle decisioni dei tribunali. Ad esempio si sa che il tribunale distrettuale di Zurigo agisce in maniera molto moderata, mentre qualche chilometro più a nord, si è nettamente più conservatori. Anche le tariffe variano.
Quindi sui vostri passaporti ci sono ancora i vostri nomi maschili?
Nadia: Sì.
Jenny: Alla nascita mi sono stati assegnati un nome e un sesso, ma ora non li trovo più appropriati.
Come mai non li cambiate?
Lena: Lo farò.
Jenny: Visto che a Zurigo si è molto avanti, mi sento incoraggiata a farlo presto.
Nadia: Piano piano. In queste cose non sono particolarmente veloce, ma forse ce la farò anch’io.
La seconda parte dell’intervista con Jenny, Lena e Nadia verrà pubblicata venerdì 14 febbraio, su bluewin.ch.
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