Svizzera L'esperto: «Il momento per avvicinarsi all'UE non potrebbe essere peggiore»

hm, ats

16.1.2025 - 15:00

Tobias Straumann è spesso noto anche al grande pubblico per la sua presenza sui media.
Tobias Straumann è spesso noto anche al grande pubblico per la sua presenza sui media.
Keystone

Avvicinarsi ulteriormente all'Ue con nuovi accordi? Il momento non potrebbe essere peggiore. Ne è convinto Tobias Straumann, professore di storia dell'economia all'Università di Zurigo.

Keystone-SDA, hm, ats

Egli ripercorre i fattori di successo del sistema paese elvetico, fra cui in primo piano figurano le dimensioni ridotte della nazione e il lungo periodo senza guerre, oltre alle istituzioni politiche. L'idea che il primo pacchetto dei bilaterali abbia permesso alla Svizzera di uscire dalle secche della recessione è a suo avviso solo una leggenda.

«L'accordo non mi convince, sono chiaramente contrario», afferma l'esperto in un'intervista pubblicata oggi dalla Weltwoche, riferendosi a quanto proposto dal Consiglio federale prima di Natale. «La Svizzera perderebbe sovranità e diventerebbe di fatto un membro passivo dell'Unione europea. Se la Confederazione vuole una maggiore integrazione, allora dovrebbe entrare nell'Ue, così almeno avrà il diritto di voto. Non sono favorevole a questa adesione, ma rispetto questa posizione perché è coerente».

«Sono contrario alla nuova intesa anche perché non capisco perché la Svizzera non abbia aspettato più a lungo, dopo il no del governo all'accordo quadro del 2021, per capire quanto sarebbe stato negativo rimanere nella situazione attuale. È bastata qualche puntura di Bruxelles e Berna è stata pronta a negoziare di nuovo».

Ma le punizioni decise dall'Ue – chiede il giornalista del settimanale – non sono un problema? «Certo che sì», risponde il 58enne. «Come professore all'ateneo di Zurigo sono colpito dal fatto che la Svizzera sia stata esclusa dal programma di ricerca Horizon. Ma non si tratta di una crisi grave. Avremmo dovuto prendere tempo per valutare quali alternative ci sono e quali opportunità si aprono. Trovo che quanto accaduto al settore delle tecnologie mediche sia estremamente rivelatore: da un lato è fastidioso che abbia perso l'accesso preferenziale al mercato interno dell'Ue, dall'altra le aziende sono riuscite a farsene una ragione. La maggior parte di esse ha comunque filiali nell'Ue: i costi sono gestibili».

Secondo lo specialista autore di importanti saggi i bilaterali sono certamente favorevoli per la Svizzera, ma nessuno sa cosa esattamente significherebbe eliminarli. «L'idea che l'economia elvetica subirebbe un drastico declino se si creassero alcuni attriti nel commercio transfrontaliero è certamente sbagliata. L'economia della Confederazione è da secoli strettamente intrecciata con i paesi vicini: le relazioni sono sopravvissute a innumerevoli guerre, crisi e recessioni, l'abolizione degli accordi bilaterali rappresenterebbe solo una lieve rottura in termini storici. La Svizzera non avrebbe più un accesso privilegiato al mercato unico dell'Ue, ma l'accordo di libero scambio e le regole dell'Organizzazione mondiale del commercio continuerebbero ad essere applicate. Questo aspetto è molto più importante del riconoscimento reciproco degli standard».

Perché allora una parte dell'élite imprenditoriale sembra ancora entusiasta degli accordi? «Si vuole far parte del progetto si ha paura di perdere qualcosa», replica l'intervistato. «Era comprensibile che si temesse un declino dell'economia elvetica dopo il rifiuto dello Spazio economico europeo nel 1992. Allora l'Ue era un progetto dinamico per il futuro. Ma oggi? La Svizzera si trova in una posizione molto migliore rispetto alla maggior parte dei paesi dell'Ue e l'Unione non è più il progetto liberale di una volta. Spero che la situazione cambi di nuovo, ma non sembra che succederà nel prossimo futuro. Il momento dell'ulteriore avvicinamento della Svizzera all'Ue non potrebbe essere peggiore».

Economiesuisse si batte però in prima linea per una convenzione con Bruxelles. «Loro ritengono che sia positivo per la Svizzera avere regole il più possibile identiche a quelle dei nostri più importanti partner commerciali, all'insegna del motto 'meno attriti ci sono, meglio è'. Ma dovremmo prima chiederci se le regole che dovremmo adottare sarebbero positive o negative per l'economia: la risposta è chiaramente negativa. In passato abbiamo avuto successo non perché abbiamo fatto le stesse cose dei nostri stati vicini, ma perché abbiamo fatto alcune cose particolarmente bene. Questo è stato possibile solo perché abbiamo mantenuto un certo margine di manovra per una politica economica indipendente, proprio come ogni altro paese europeo».

«L'economia svizzera aveva successo prima dei numerosi trattati con Bruxelles», puntualizza l'accademico con studi a Zurigo, Parigi e Bielefeld (Germania). «Il mercato unico dell'Ue esiste solo dagli anni 90, ma la Svizzera è uno degli stati più ricchi del continente europeo da più di cento anni. E alla fine degli anni 90, la ripresa era già in atto da tempo quando i negoziati bilaterali con l'Ue hanno raggiunto la fase critica. Questa è una leggenda che viene raccontata più volte: la Svizzera era intrappolata nella recessione ed è riuscita a uscirne solo grazie al primo pacchetto bilaterale. Non corrisponde ai fatti della storia economica».

Lo storico ripercorre poi i fattori che hanno fatto la forza della Confederazione, citando in particolare la posizione geografica favorevole, le dimensioni ridotte del paese e le istituzioni politiche. «Ma ciò che ha certamente contribuito alla prosperità superiore alla media della Svizzera è il lungo periodo di pace trascorso dal XVI secolo. A parte l'occupazione francese dal 1798 al 1813, la Svizzera è sempre stata al di fuori delle guerre europee. Le cose sarebbero potute andare diversamente. La storia dell'Alsazia dimostra quanto possa essere dannoso il regolare verificarsi di guerre: nel XIX secolo la regione era ancora un'area economica fiorente, poi le cose sono precipitate e, a tutt'oggi, l'Alsazia non è riuscita a riconquistare la sua precedente forza innovativa».

Rispetto ad altri paesi, la Confederazione ospita anche molte grandi multinazionali come Nestlé, Roche e ora – nella sua unità più importante fuori dagli Stati Uniti – Google. «È tipico dei piccoli stati europei aprire presto fabbriche nei grandi mercati esteri: il mercato interno era troppo ridotto e alla fine del XIX secolo le grandi nazioni confinanti e gli Stati Uniti divennero sempre più protezionisti. L'esportazione non era più conveniente nella stessa misura, quindi le aziende dovevano produrre localmente. Nel caso della Svizzera, c'era un'altra ragione, di cui abbiamo già parlato: la lunga pace. Se si sopravvive a una guerra come neutrali, si possono mantenere le fabbriche estere».

«Inoltre l'immigrazione ha giocato un ruolo importante anche nella grande fase di espansione della fine del XIX secolo. Molti fondatori di aziende che hanno creato società internazionali erano immigrati». Ma le circostanze erano diverse nel XIX secolo rispetto a oggi. «Come attualmente, c'era la libera circolazione delle persone in Europa e, poiché la Svizzera ha vissuto una sorta di miracolo economico nei tre decenni precedenti la Prima guerra mondiale (1914), ha attirato molti lavoratori stranieri, come oggi, che hanno aiutato il paese a compiere progressi decisivi. Ma mi sembra che l'integrazione nell'élite economica abbia avuto più successo allora».

«Oggi osservo una segmentazione dell'economia», prosegue Straumann. «Le grandi imprese sono di proprietà di azionisti stranieri e sono in gran parte gestite da manager stranieri. L'economia nazionale e le piccole e medie imprese orientate all'esportazione, invece, sono largamente dominate dagli svizzeri. Questo porta a una spaccatura nell'élite economica, che sta diventando sempre più difficile a livello politico. Nel XIX secolo era più facile mantenere un equilibrio tra gli immigrati innovatori e le élite economiche nazionali. Ad esempio, gli svizzeri avevano voce in capitolo nella maggior parte dei consigli di amministrazione e coloro che rimanevano più a lungo venivano naturalizzati. Questo era molto importante per la coesione politica e sociale, soprattutto in una democrazia diretta come la Svizzera».

«Un piccolo stato democratico come la Svizzera funziona solo se condividiamo certe esperienze e interagiamo tra di noi in tutte le classi sociali. Se la Svizzera viene vista solo come una piattaforma per le aziende e i manager stranieri che promuovono la prosperità, mentre gli abitanti del luogo si spartiscono i posti di lavoro nell'amministrazione statale, allora vivremo fianco a fianco, non insieme. Oggi vedo gli inizi di questa tendenza», conclude l'economista.