Stati UnitiPrimo via libera del Senato agli aiuti per Ucraina, Israele e Taiwan
SDA
8.2.2024 - 21:25
Primo via libera al Senato americano per il pacchetto da 95 miliardi di fondi per Ucraina, Israele e Taiwan: è il piano B dopo la bocciatura del disegno di legge bipartisan da 120 miliardi che legava gli aiuti stranieri ad una radicale riforma sull'immigrazione e ad una stretta al confine col Messico.
08.02.2024, 21:25
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Una mozione procedurale è passata con 62 sì e 28 no, superando il quorum dei 60 voti necessari per l'approvazione. Per Kiev sarebbero 61 miliardi, per Israele 14, mentre 5 sarebbero destinati ai partner dell'Indo-Pacifico, compreso Taiwan.
Resta l'incertezza sull'esito finale, accresciuta da quanto potrà accadere alla Camera, ma se il provvedimento andasse in porto sarebbe una sconfitta per Donald Trump, che ha chiesto ai repubblicani di non fare «regali» ai democratici prima delle elezioni.
Sarebbe invece una vittoria per Joe Biden, che ora vede la strada per la Casa Bianca libera dalla spada di Damocle dell'inchiesta del procuratore speciale Robert Hur sulle carte classificate trovate nel garage della sua casa e in un ufficio di un think tank: l'indagine si è conclusa senza apparenti accuse, secondo Politico.
«Gli argomenti dei miei legali sono stati ricevuti bene»
Il tycoon intanto sembra poter superare il primo ostacolo alla Corte suprema nella sua corsa alla Casa Bianca. «Gli argomenti dei miei legali sono stati ricevuti bene», ha commentato da Mar-a-Lago davanti ad una folla di giornalisti, rilanciando contro i democratici le accuse di «interferenza elettorale», vantando di essere «avanti in tutti i sondaggi» e promettendo «una grande vittoria» anche se Nikki Haley non si ritirerà.
I nove giudici, e non solo quelli conservatori, sono apparsi scettici verso la decisione della Corte suprema del Colorado di escluderlo dal voto statale per il suo ruolo nell'assalto al Campidoglio in base al 14esimo emendamento della Costituzione, che vieta le cariche pubbliche ai funzionari coinvolti in insurrezioni o rivolte contro la costituzione su cui hanno giurato.
Dai loro commenti e dalle loro domande, nell'udienza in cui le parti hanno illustrato le loro tesi, pare siano orientati a cercare una via d'uscita e lasciare il tycoon nelle urne.
Più difficile che gli riconoscano l'immunità
Sembra più difficile invece per The Donald vedersi riconosciuta l'immunità presidenziale, negatagli anche in appello, nel processo per i suoi tentativi di ribaltare il voto del 2020, culminati nell'assalto al Congresso.
Entrambi i casi sono senza precedenti e daranno nuovamente alla Corte suprema l'ultima parola sulle elezioni presidenziali, come successe nel 2000 nella sfida Bush-Gore.
La storica decisione sul 14esimo emendamento deve arrivare in tempo per il Super Tuesday del 5 marzo, quando il Colorado va al voto insieme ad altri 15 Stati. La sentenza farà da precedente anche per le cause analoghe intentate in una ventina di stati americani.
Il tycoon può contare su una maggioranza di sei giudici conservatori su nove (di cui tre nominati da lui). Uno di loro, Clarence Thomas, si è rifiutato di ricusarsi nonostante le richieste democratici per il ruolo di sua moglie Ginni, attivista pro Trump coinvolta nel tentativo di stravolgere l'esito del voto del 2020.
Forti dubbi sull'applicabilità del 14esimo emendamento
Ma quasi tutti i giudici hanno espresso forti dubbi e scetticismo sull'applicabilità del 14esimo emendamento, che consentirebbe ad un singolo Stato di prendere decisioni con conseguenze su un'elezione presidenziale nazionale. E col rischio di un effetto domino in altri Stati, da ambo i partiti.
Il presidente della Corte suprema John Roberts ha detto addirittura che la tesi del Colorado «fa a pugni» con lo spirito di limitare il potere statale del 14esimo emendamento, ratificato dopo la guerra civile americana per impedire che i sudisti secessionisti insorti contro il governo federale potessero tornare al potere.
La difesa di Trump ha sostenuto che il 14esimo emendamento può essere attuato per via legislativa solo dal Congresso e che comunque esso non si applicherebbe al tycoon perché il presidente non è un «funzionario» e perché quella del 6 gennaio fu «una sommossa vergognosa, criminale e violenta ma non un'insurrezione».
Un'ammissione che non deve essere piaciuta a Trump, se poco dopo lo ha corretto affermando che la protesta al Capitol fu «pacifica e patriottica».