MalnutrizioneMai più fame nel mondo? Purtroppo no. Cosa c'entra il clima
Philipp Dahm
26.12.2020
Le Nazioni Unite vorrebbero sradicare la fame nel mondo entro il 2030. Ma quest’obiettivo ha poche possibilità di essere raggiunto – in realtà, si stima che sempre più persone tra dieci anni dovrebbero soffrire di malnutrizione. Questa serie - di cui quella che leggete è la terza parte – ce ne spiega le ragioni.
In tema di malnutrizione, il numero di persone che soffrono la fame non è l’unico fattore da prendere in considerazione; infatti, l’ampiezza delle zone coltivate e dei pascoli rappresenta un altro fattore che permette di porvi rimedio. Il problema è che i cambiamenti climatici annientano una grande parte del suolo disponibile.
Sfide mondiali
Il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite si è aggiudicato quest'anno il premio Nobel per la pace. Ma per quale ragione? Nel 2019, circa 690 milioni di persone soffrivano di sottoalimentazione – e questo numero potrebbe persino raggiungere gli 840 milioni tra dieci anni. L’ONU non riuscirà probabilmente nel suo obiettivo di sradicare la fame entro il 2030. E questo, malgrado i progressi estremi profusi nella lotta contro la povertà ai quattro angoli del globo. La nostra serie in quattro parti intitolata «Sfide mondiali» mette in luce i fattori decisivi. La prima parte trattava il fattore demografico, questa seconda parte il fattore umano, mentre la terza parte affronterà il fattore climatico, prima dell’ultima sezione, che sarà un bilancio conclusivo.
Attualmente, tutti i paesi del mondo sono impegnati a raggiungere gli obiettivi fissati durante il summit di Parigi sui cambiamenti climatici del 2015 – soltanto gli Stati Uniti hanno ritrattato, dopo l’arrivo di un nuovo presidente alla Casa Bianca nel gennaio 2017.
Da allora, la ricerca non si è fermata, spiega Thomas Stocker dell’università di Berna in un’intervista concessa a «blue News»: «Ci sono stati dei progressi, in particolare nell’ambito dei "punti di non ritorno", specificamente per quanto riguarda la Groenlandia e l’Antartico, ma anche per ciò che concerne la vegetazione o le emissioni di metano in Siberia, per esempio.»
Tuttavia la maggiore conoscenza non protegge la gente da grosse sciocchezze. «Non siamo sulla buona strada», precisa il consigliere presso il Consiglio federale, particolarmente preoccupato per la sensibilità climatica: i gas a effetto serra fanno più danni di quanto avesse predetto sette anni fa il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC), di cui Thomas Stocker è stato membro. «In quest’ambito, non è stato lanciato lo stato di allerta.»
Cambiamenti climatici dovuti a conseguenze economiche importanti
Uno dei problemi è l’innalzamento del livello del mare, che starebbe accelerando, secondo quanto attestano delle nuove scoperte «solide», come rivela Thomas Stocker: si tratta di un fenomeno che potrebbe inghiottire le terre agricole fertili, in particolare nei delta, come in Egitto o in Myanmar.
«Si perdono delle terre, ma la maggiore minaccia riguarda le megalopoli che si sono sviluppate lungo le coste nel corso degli ultimi 50 anni, spiega Thomas Stocker. Esse elevano ulteriormente il livello relativo del mare rispetto alla zona costruita, pompando più acqua sotterranea – come in Bangladesh.»
Il problema riguarda il «ciclo dell’acqua, che è modificato. Prendete gli esempi della Spagna o dell’Africa del Nord: le zone dove si coltivano gli alimenti sono già al limite in materia di approvigionamento idrico.» In caso di riscaldamento non controllato, ciò avrà importanti conseguenze finanziarie, precisa Thomas Stocker – nel caso in cui queste pratiche saranno ancora possibili.
«Un cambiamento rapido nella regione delle Alpi»
Ma gli svizzeri non potrebbero dire «Ci dispiace, ma non viviamo ad alte quote»? Come si può immaginare, sarebbe un atteggiamento troppo superficiale: «Gli svizzeri sono a contatto con il riscaldamento climatico mondiale, come lo chiamo, in molti modi.» Da noi, l’aumento della temperatura è due volte più elevato della media mondiale, sottolinea Thomas Stocker.
La conseguenza è data dalle inondazioni e dalle condizioni metereologiche estreme: «La ripartizione stagionale si modifica nel ciclo dell’acqua, cosa che ha un impatto considerevole sul settore dell’acqua, il turismo e l’agricoltura.» Senza parlare delle conseguenze geologiche che si susseguono quando alcuni ghiacciai si ritirano dai massicci montuosi. «Stiamo affrontando un rapido cambiamento nella regione delle Alpi», sottolinea Thomas Stocker.
Lasciamo tuttavia le Alpi, che contribuiscono poco all’agricoltura e all’allevamento, per ritornare in paesi come l’Egitto o l’Iraq, in cui la popolazione sta crescendo molto, tanto quanto le temperature, cosa che minaccia gli approvvigionamenti agricoli. Questi punti caldi – nel senso vero e proprio del termine - devono affrontare un’altra sfida.
I paesi ricchi industrializzati di fronte a un dovere
«A ciò si aggiunge il problema dell’umidità», spiega l’esperto originario di Zurigo. Questi paesi sono vicini al mare, qui l’evaporazione e l’umidità aumentano. La combinazione con il calore rende impossibile il lavoro umano.»
Ma ciò non significa che delle zone che prima non erano coltivabili ora possano diventarlo? «Non possiamo scartare questa possibilità», rileva il professore bernese, che ne precisa tuttavia le conseguenze: le infrastrutture dovranno essere spostate, i suoli dovranno adattarsi alla loro funzione e le conoscenze dovranno essere trasferite. «Ciò costa un’enorme somma di denaro.»
Le prospettive non sono molto rosee, ma la situazione non è neppure disperata, conclude Thomas Stocker: «Se noi, paesi ricchi e industrializzati, non procediamo a cambiamenti infrastrutturali per ridurre le emissioni di CO2 – intendo con questo la riduzione del volume del traffico aereo o il passaggio alle energie rinnovabili, per esempio –, non raggiungeremo di certo l’obiettivo fissato dall’accordo di Parigi sul clima.»
Punti di non ritorno già superati
Tuttavia, secondo l’esperto, in alcuni casi il punto di non ritorno sarebbe già stato superato.
«Non c’è un limite magico, afferma. «Ma se lei mi pone questa domanda riguardo la Groenlandia, è fortemente probabile che esso sia stato superato. Se il suo "punto di non ritorno" si riferisce ai nostri ghiacciai, anch’esso è superato. Forse questo non è ancora il caso del metano in Siberia, ma ovviamente, anche il permafrost si sta sciogliendo poco a poco.»
Il limite di un grado e mezzo fissato come soglia massima dall’accordo di Parigi sarà raggiunto soltanto tra qualche anno. Per chiudere la discussione, Thomas Stocker sottolinea che la crisi climatica esacerba massicciamente il problema della fame nel mondo, ma che le misure necessarie di protezione del clima non la risolveranno automaticamente.
Questo sarà il tema della quarta parte di questa serie.
Nota della redazione: l’intervista è stata effettuata su Zoom.