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Guerra in Ucraina Mattia Capezzoli: «Inutile parlare, l’orrore l’ho visto nei loro occhi»
di Paolo Beretta
20.4.2022
Mattia Capezzoli, regista RSI, si è recato in Ucraina. Al rientro ci racconta la sua prima esperienza come inviato di guerra, elenca le difficoltà vinte sul terreno, condivide le sensazioni che ha provato, spiega perché è importante recarsi nelle zone di conflitto e qual è la chiave per un prodotto giornalistico di qualità.
Mattia Capezzoli, come e quando ha deciso di diventare un inviato di guerra?
Il 10 marzo mi è stato proposto di andare in Ucraina. Non ho avuto nessun dubbio, ho deciso subito di partire. Con il collega giornalista Emiliano Bos in 24 ore abbiamo organizzato il materiale necessario e evaso le pratiche amministrative. Siamo partiti il 12.
Perché ha accettato subito? Dopo tutto, sarebbe partito per entrare in un paese in guerra, non per un normale reportage.
Nel mio lavoro di regista cerco di prevedere tutto, imprevisti compresi, e di pianificare il più possibile. In un paese in guerra ciò diventa tutto molto complicato. In questo senso c’è stato effettivamente un sentimento d’incertezza. Ma ho accettato perché fa parte del mio lavoro e penso sia importantissimo che gli inviati vadano sul luogo dove accadono le cose per raccontarle, soprattutto in questo periodo, dove si tende sempre di più a giudicare e a trarre conclusioni da molti chilometri di distanza, senza essere correttamente informati. È essenziale che si vada per testimoniare quel che succede.
Il regista Mattia Capezzoli
Mattia Capezzoli, classe 1987, nel 2013 si diploma al British Columbia Institute of Technology di Vancouver in Broadcast Communication, Television & Video Production. Inizia a collaborare con la RSI nel 2008 e dal 2013 diventa fisso. In RSI s'è occupato di trasmissioni d’informazione, d’intrattenimento e culturali. È stato inviato in Norvegia per coprire gli attentati terroristici a Oslo e Utøya del luglio 2011, in Etiopia e a Bondo nel 2017 per la frana. Ha curato in particolare la regia di due programmi in diretta, «Gottardo 09:39», a 20 anni dall’incidente nel San Gottardo, e poi «TuttInsieme 2022», per San Silvestro. Ora si occupa della regia di programmi culturali e di attualità.
Quale è stato il materiale di cui ha avuto bisogno, oltre, ovviamente, alle telecamere?
I criteri fondamentali per affrontare un lavoro in un clima ostile e imprevedibile come quello di una zona di guerra sono due: flessibilità e sicurezza. In questo senso è importante portare con sé equipaggiamenti leggeri e funzionali a quello che ci si aspetta di trovare sul terreno. Allo stesso tempo bisogna sempre prevedere delle soluzioni di backup se qualcosa dovesse andare storto. Per esempio, con me avevo sempre tre telefoni, batterie a sufficienza per garantire un’autonomia energetica che potesse far fronte agli imprevisti. Indispensabili ovviamente un giubbotto antiproiettile, l’elmetto e una piccola farmacia.
Siete stati alcuni giorni a Leopoli, la città più occidentale dell’Ucraina, crocevia tra chi fugge dall’orrore e chi invece va verso il fronte a combattere. Qual è stata la prima impressione?
La sensazione che abbiamo avuto, una volta arrivati, è che in nessun luogo si è al sicuro. Leopoli non si trova sulla linea del fronte in conflitto. Eppure il giorno in cui siamo arrivati (il 13 marzo, ndr.) sono cadute delle bombe a 40 chilometri di distanza. Il 18 marzo tre missili russi provenienti dal Mar Nero hanno colpito un magazzino nei pressi dell’aeroporto. Pochi giorni dopo c’è poi stato un terzo bombardamento, questa volta proprio in città, a tre chilometri dal centro. In questi due ultimi casi ci siamo recati sul posto per documentare quanto stava succedendo.
Ma quindi avete avuto paura?
No. Non userei questo termine. C’è una componente di rischio che si accetta, perché è chiaro che si è in una zona di guerra. Le sirene suonano quattro o cinque volte al giorno, così come anche di notte. La gente gira per strada e nei bar. Ma tutti sono ben coscienti che non ci si trova al sicuro in una bolla.
Oltre alle esplosioni avete documentato altro.
Sì, abbiamo raccontato dei treni, tre o quattro al giorno, in arrivo da ogni parte dell’Ucraina, pieni di persone in fuga. Le autorità riempivano i convogli fino al limite delle possibilità, forse anche oltre, non c’era bisogno del biglietto. Abbiamo visto soprattutto donne e bambini. Alcuni di loro ci hanno raccontato d’essere in cammino da tre giorni.
Vi siete poi spinti fino a Kiev, quando le truppe russe non avevano ancora iniziato a ritirarsi.
In un ambiente ostile come quello di un paese in guerra tutti i movimenti vengono attentamente pianificati, valutati e ponderati. Non si improvvisa mai e qualsiasi cosa si decida di fare bisogna sempre prevedere un piano B e anche un piano C. Dopo qualche giorno a Leopoli abbiamo ritenuto - in accordo con i nostri superiori - che la situazione a Kiev comportasse un grado di rischio ragionevolmente accettabile. Fare questo tipo di valutazioni è possibile unicamente quando si è sul campo.
Come avete raggiunto la capitale?
A Kiev siamo andati in treno. È stato uno dei momenti di maggior tensione in assoluto. Siamo partiti la sera tardi e abbiamo viaggiato di notte, immersi nel buio anche nella carrozza per questioni di sicurezza, in mezzo a un paese in guerra che non conoscevamo, senza sapere esattamente dove ci trovassimo. L’esperienza vissuta poi contrastava con quella che avevamo visto fino ad allora, con i vagoni stracolmi di gente. Ci siamo trovati praticamente su un treno semi-vuoto. Con noi c’erano solo alcuni medici, degli avvocati, dei diplomatici e altri colleghi giornalisti.
Degli avvocati?
Sì. Ci sono diverse ONG e altre organizzazioni di aziende internazionali che fanno capo ad avvocati per documentare quello che avviene in Ucraina. Molte di queste organizzazioni sono attive nell’ambito della difesa dei diritti umani e nella documentazione di crimini di guerra.
Siete partiti da soli per Kiev?
No. Siamo stati accompagnati dal nostro interprete, temporaneamente trasferitosi a Leopoli, ma che vive a Kiev. Prima di metterci in viaggio ci siamo messi in contatto con dei fixer presenti in loco da tempo, per capire quali erano le zone da evitare e quali invece avremmo potuto raggiungere mantenendo un livello di rischio basso. È fondamentale poter contare su persone che conoscono la situazione in continua evoluzione, che la seguono da vicino.
Cosa avete trovato a Kiev?
La situazione a Kiev è surreale e difficilmente comprensibile se non la si vive in prima persona. Il centro è completamente deserto. Per le strade ci sono praticamente solo giornalisti e militari. In questo silenzio apparente si sente il rumore incessante delle esplosioni e delle scariche di mitra provenienti dalla periferia.
Vi sareste potuti spostare da soli?
L’interprete è stato fondamentale. Sia Emiliano che io parliamo l’inglese e diverse altre lingue. La comprensione sia scritta che orale dell’ucraino è sostanzialmente impossibile per qualcuno che non lo parla. Tante persone in Ucraina non parlano inglese o lo parlano molto male. A volte è difficile anche semplicemente spiegare all’autista dove si vuole andare.
Avete avuto delle difficoltà particolari?
Un aspetto sicuramente molto importante da imparare a gestire è il rapporto con l’esercito e la polizia. S’apprende anche come comportarsi ai check-point. Con il passare dei giorni, poi, si capisce quello che si può e quello che non si può filmare. Abbiamo avuto un paio di episodi in cui la polizia non era contenta che noi riprendessimo con la telecamera.
Come ne siete usciti?
Siamo sempre riusciti, in maniera molto diplomatica, a calmare gli animi. Ci ha anche aiutato, più di una volta e in maniera determinante, avere ottenuto un’autorizzazione ufficiale delle forze armate ucraine per operare nei territori controllati dall’esercito. Mostrando questo accredito gli agenti o i soldati si rilassavano un poco.
Ma non sempre l’accreditazione ufficiale è bastata…
Non sempre è stato facile. A Leopoli, per esempio, abbiamo cominciato una diretta TV per la trasmissione Falò una manciata di minuti dopo l’inizio del coprifuoco in città, fissato alle 22h00 ora locale, le 21h00 in Svizzera. Anche se eravamo a soli tre metri dall’entrata del nostro hotel, degli agenti armati di Kalashnikov sono subito arrivati per farci smettere. Per guadagnare tempo, siccome Emiliano stava già parlando, ho mostrato ai poliziotti qualsiasi tipo di documento di cui ero in possesso. Come ultima mossa, per guadagnare i due minuti necessari per finire il collegamento, sono salito in camera per cercare altri documenti e ho mostrato loro addirittura la carta dell’assicurazione malattia e quella di fedeltà di un supermercato. Alla fine, è andata bene.
Cosa non vi era permesso filmare e perché?
I check-point e i bocchi militari non si filmano mai! È una regola imprescindibile. Infatti, si vedono pochi video con tali installazioni militari. Questo per non fornire informazioni sensibili relative alla posizione dell’esercito e alle strutture di difesa impiegate. Dal punto di vista giornalistico, poi, bisogna dire che non sono molto interessanti. Non è inoltre consentito filmare le zone colpite dai missili immediatamente dopo i bombardamenti. Questo per non dare alla controparte informazioni su quali obiettivi siano stati colpiti o meno. Abbiamo comunque sperimentato situazioni in cui la polizia ci ha permesso di filmare chiedendo di diffondere il materiale non prima di tre ore dall’evento.
Cosa potevate filmare liberamente?
C’è stato un grande approccio collaborativo da parte di esercito e polizia per filmare le zone già bombardate. Una collaborazione quasi eccessiva. Ma in parte è comprensibile. Agli ucraini preme fortemente che la comunità internazionale conosca quello che sta succedendo nel loro paese. Quello che stanno subendo.
Il loro atteggiamento potrebbe influenzare i giornalisti?
Il compito del giornalista è quello di raccontare la sua percezione dei fatti senza farsi influenzare. Il fatto di esserci per noi è un privilegio impagabile. Non siamo stati al fronte. Ma abbiamo visto uno spaccato della realtà della guerra. È la testimonianza più forte che possiamo portare. E la difficoltà più grande del nostro lavoro è riportarla a chi non è presente. Le immagini e i racconti possono aiutare, ma si tratta pur sempre dell’approssimazione della realtà. Per quel che riguarda avvenimenti specifici di cui non siamo stati testimoni diretti, per verificare è importante incrociare le fonti e fare un’analisi. Quando leggo che i fatti di Bucha sono tutta una montatura mi arrabbio molto, perché significa che il lavoro dei giornalisti seri è messo sullo stesso piano di chi si inventa falsità per il puro gusto di gridare al complotto. L’incapacità di una parte di popolazione di valutare la qualità della propria fonte d’informazioni è molto preoccupante.
A proposito di civili. Vediamo che molti di quelli che fuggono si portano dietro gli animali domestici. Sono immagini inusuali, che non arrivano da altre zone di guerra, come ad esempio dalla Siria o dalla Libia. Un segno che questo conflitto è diverso? Pensa sia una differenza culturale?
Per chi scappa a piedi abbandonando la propria casa, forse per sempre, è inevitabile dover scegliere cosa portare con sé e cosa abbandonare. Non ho abbastanza esperienza sul campo per poter dire che questa guerra sia diversa dalle altre. Tutte le guerre sono accomunate dalla circostanza in cui persone uccidono altre persone. Non vi è umanità in questo disegno.
Gino Strada, fondatore di Emergency, scomparso pochi mesi orsono, diceva che il 90% delle vittime di qualsiasi guerra sono civili. Ha avuto la stessa impressione?
Prima di tutto bisognerebbe mettersi d’accordo sul concetto di vittima. Perché la tragicità della guerra va molto al di là della conta dei morti. Tutti abbiamo visto le immagini di quanto successo a Mariupol, a Irpin, alla stazione di Kromatorsk. L’Ucraina conta 44 milioni di abitanti, ad oggi più di 10 milioni hanno abbandonato la propria casa. Non c’è molto altro da aggiungere.
Come regista lavora con le immagini. Di quali si ricorderà?
Di quelle degli edifici distrutti, dei funerali di soldati uccisi, dei depositi di carburante in fiamme davanti ai nostri occhi. Siamo abituati a vederle in TV. Ma sperimentale in prima persona è tutta un’altra cosa.
Ce ne sono altre?
Sì. Quelle viste a Leopoli dei treni pieni di persone in fuga e quelle delle donne e dei bambini che, con borse di fortuna, attraversavano a piedi la frontiera. Tutte queste persone avevano una loro compostezza. Tutte con esperienze tragiche. E non tutte avevano voglia di raccontarle. La cosa indelebile che mi rimarrà per sempre: la paura scorta negli occhi di alcune di loro. Una cosa chiaramente intellegibile. Inutile parlare, l’orrore l’ho visto nei loro occhi.
A livello umano cosa porterà personalmente con sé da questa esperienza?
La risposta a questa domanda per me è difficile. Sicuramente il rafforzamento della consapevolezza dell’importanza di essere testimoni diretti di quello che succede in questi contesti.
Avete dunque avuto delle giornate di lavoro molto impegnative, oltre al fatto che si svolgevano in un contesto di guerra.
Sì. Posso raccontare un aneddoto che potrebbe far anche sorridere. Durante il nostro soggiorno in Ucraina abbiamo mangiato poco, ma non perché mancasse il cibo. Lo avremmo trovato senza troppa difficoltà. Ma perché il tempo per le pause era davvero molto limitato. Fondamentalmente si è sul campo per raccogliere testimonianze e si cerca di raccoglierne il maggior numero possibile per avere un quadro della situazione il più preciso possibile. In queste condizioni l’appetito va un po’ a perdersi. Le giornate iniziavano alle 7:30 del mattino e potevano finire anche dopo le 22.
Il collega Emiliano Bos viene dal mondo della radio. Come sono stati i vostri rapporti? Non deve essere facile lavorare per diversi giorni filati, per così tante ore al giorno, in condizioni oggettivamente difficili, con qualcuno che non si conosce bene e che arriva da un altro canale.
La collaborazione con Emiliano è un altro aspetto professionale molto costruttivo che mi porto a casa. Perché la differenza in una circostanza come la guerra la fa la sinergia che lega le due persone che lavorano assieme. Abbiamo avuto una magnifica intesa e il nostro lavoro di team è stato sicuramente l’aspetto vincente dei nostri 18 giorni insieme.
Vuol dire che, malgrado lo stress, la stanchezza e la situazione difficile, tutto è filato sempre liscio? È difficile da credere.
Ha ragione. Ci sono state alcune occasioni nelle quali abbiamo avuto delle discussioni anche molto animate. Ma erano nel contempo molto costruttive perché finalizzate a migliorare la qualità del prodotto finale. Una volta terminate le discussioni siamo andati avanti con il lavoro come se non fosse successo nulla. Credo che un professionista non possa chiedere di meglio quando collabora con un collega.
Viste le giornate molto impegnative, siete riusciti a mantenere il contatto col mondo esterno?
Si cerca di rimanere informati, ma il poco tempo a disposizione lo si dedica alla raccolta di informazioni sul campo e alla pianificazione degli spostamenti. Ad eccezione di quelle di lavoro, ho fatto davvero poche telefonate in Svizzera. Qualche messaggio ad amici e parenti per dire che era tutto ok, ma nulla di più.
Vista la positività dell’esperienza fatta, pensa di riorientare la sua carriera da regista verso più missioni all’estero, in situazioni di conflitti?
Riorientare non è la parola corretta. Il lavoro del regista è un lavoro in cui gli aspetti pratici ti formano molto. In questo senso, grazie all’esperienza fatta in Ucraina, affronterò le sfide future in maniera diversa, perché ogni giorno si è chiamati a maggiore flessibilità, a essere più polivalenti.
Ma quindi non tornerebbe in Ucraina?
Privatamente sicuramente ci tornerò, ma non so quando. Per lavoro, la volontà di tornare c’è, ma non sono decisioni che posso prendere in autonomia.
Quando ha lasciato Leopoli per tornare in Svizzera che cosa ha pensato?
Sono partito con una sola consapevolezza: in Ucraina ci sono ancora tantissime storie da raccontare.