8 anni moriva Vujadin Boskov, uno degli allenatori più carismatici della storia del calcio, un professore prestato al calcio; quello semplice.
Vujadin Boskov amava parlare: in serbo, in spagnolo e pure in italiano.
Studiò storia e geografia e spesso amava contornarsi di amici per discutere di qualsiasi cosa. Era un personaggio atipico nel mondo del calcio, eccentrico, divertente e carismatico. Boskov, che nacque nell'allora Jugoslavia nel 1931, era una persona di grande cultura. Quando si trattava di calcio invece, il serbo, diventava pragmatico ed estremamente semplice.
«Il calcio è il re degli sport per la sua semplicità.»
«Non capisco perchè alcuni dei miei colleghi (allenatori n.d.r.) amano complicare le cose? - raccontò Boskov anni fa alla rivista Tempo. - Amano usare parolone, trasformare la nostra professione in qualcosa di estremamente complesso. A me ciò non piace. Il calcio è il re degli sport per la sua semplicità.»
Anche questo era Vujadin Boskov.
Da giocatore giocò quasi solo in patria (Jugoslavia) per il Vojvodina, prima di avventurarsi in Italia (Sampdoria) e in Svizzera (Young Boys). Collezionò 52 presenze con la sua Nazionale, che guiderà nel 1971 e poi ancora nel 1999.
La sua carriera da allenatore cominciò in Svizzera, proprio allo Young Boys dove terminò la parentesi da giocatore. Da lì allenò in Olanda, Spagna, Italia e ancora Svizzera (Servette). Ma fu l'Italia che lo 'adottò' e gli permise di diventare leggendario: quando vinse lo scudetto (l'unico della storia) con la Sampdoria dei vari Vialli, Mancini e Cerezo e più in generale, permettendogli di usare tutta la sua ironia coltivata per anni sui campi da calcio.
Le sue frasi più famose risalgono infatti al periodo in Italia.
«Rigore è quando arbitro fischia.»
«Pallone entra quando Dio vuole.»
«Gullit è come cervo che esce di foresta.»
Boskov amava giocare con i giornalisti italiani, che a loro volta gli davano la possibilità di scrivere aforismi rimasti negli annali del calcio.
«Se io sciolgo il mio cane, lui gioca meglio di Perdomo. Non dico che Perdomo giocare come mio cane. Dico che lui potere giocare a calcio solo in parco di mia villa con mio cane.»
Boskov è stato, ed è tuttora uno dei pochi allenatori che ha usato l'ironia per sdrammatizzare il 'troppo serio' mondo del pallone.
«Meglio perdere una partita 6-0 che sei partite 1-0.» O ancora, «Meglio perdere 4-0 che perdere 5-0.» (Al termine di Inter–Napoli terminata 4-0)
Un uomo furbo, che aveva capito quanto evanescente era quel mondo dorato.
«Gli allenatori sono come le gonne: un anno vanno di moda le mini, l'anno dopo le metti nell'armadio.»
«Più bravi di Boskov sono quelli che stanno sopra di lui in classifica.»
Un astuto stratega Boskov, che amava intrattenere il pubblico italiano e ricevere attenzioni da esso. Appariva sornione, con il sorriso sempre in agguato per compiacersi di una nuova trovata.
«Questa partita la possiamo vincere, perdere o pareggiare.»
«In campo sembravamo turisti. Con la differenza che per entrare allo stadio non abbiamo pagato il biglietto.»
Alle critiche - che non gli sono state risparmiate - sapeva reagire con il solito piglio, stendendo frasi che non ammettevano articoli e anche per questo, risultavano forse più efficaci, dirette.
«Non si possono prendere quattro gol contro avversari che passano tre volte nostra metà campo.»
«Giocatore con due occhi deve controllare pallone e con due giocatore avversario.»
Nel 1997 tornò a Genova, ma l'idillio si era rotto. Vialli, Mancini, Cerezo e Pagliuca non c'erano più. Un anno a Perugia ancora prima di riprendere la via della nazionale della Jugoslavia, che allenò dal 1999-2000. La sconfitta subita per 6-1 contro l'Olanda segnò la fine della sua carriera da allenatore e in parte lo allontanò dal mondo del calcio, che non capiva più.
Non c'era più spazio nemmeno per la sua ironia.
«Questo non è il gioco che amo. Questo non è il mio calcio. Non lo riconosco più. Gira tutto attorno ai soldi. Non ci voglio più lavorare.»
«Ogni coach deve smettere», ogni vita deve terminare.
Quella di Vujadin Boskov si spense il 27 aprile del 2014 all'età di 82 anni, affievolita da una forma aggressiva di Alzheimer.
Rimangono le sue parole e i suoi pensieri senza tempo.