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Il caso di Julian Assange Tanti anni di isolamento: come si sopporta una situazione del genere?
Runa Reinecke
29.7.2019
Nell'intervista di «Bluewin», la psicologa forense Leena Hässig spiega quali sono le conseguenze di un isolamento di lunga durata e in che modo esso irrompe nella vita dei detenuti che potrebbero passare il resto della loro vita dietro le sbarre.
Julian Assange è in una brutta situazione. Per diversi anni ha vissuto protetto nell'Ambasciata londinese dell'Ecuador per sfuggire all'estradizione negli Stati Uniti. Un lasso di tempo che, a detta dell'inviato speciale dell'ONU Nils Melzer, ha lasciato tracce: Assange sembra soffrire di ansia e mostra i sintomi di un grave trauma psicologico.
L'11 aprile di quest'anno, il 48enne è stato arrestato dalla polizia britannica dopo che il suo asilo presso l'Ambasciata è stato revocato. Gli Stati Uniti accusano Assange di molteplici crimini. Attualmente è in stato di custodia cautelare.
Leena Hässig spiega quali conseguenze comporta l'isolamento permanente sulla vita di una persona. La psicologa forense è regolarmente in contatto con i detenuti degli Istituti penitenziari svizzeri. Durante l'intervista, la psicologa racconta di quei detenuti che si dimostrano particolarmente sensibili alla condizione di detenzione e cosa può accadere se i prigionieri perdono il contatto con la realtà.
Signora Hässig, negli ultimi sette anni Julian Assange si è rintanato presso l'Ambasciata londinese dell'Ecuador in uno spazio di soli 20 metri quadrati: come si sopporta una cosa del genere?
Non sappiamo quale fosse la sua vita quotidiana nel dettaglio, né sappiamo quante visite abbia ricevuto in quel periodo o quante volte abbia avuto contatti con i dipendenti dell'Ambasciata. Dalla mia esperienza professionale, so quanto sia difficile per i detenuti in carcere sopportare l'assenza di comunicazione, dunque vivere in un ambiente particolarmente silenzioso. I prigionieri sono felici quando hanno la possibilità di scambiare due parole con altri detenuti o con il personale interno al carcere. Sicuramente il fatto di avere libero accesso a Internet è stato un grande sollievo per Julian Assange. Ciò gli ha permesso di tenersi sempre in contatto con la sua cerchia di persone abituale, con la famiglia e con gli amici.
Accesso a Internet, un privilegio che i detenuti degli Istituti di custodia cautelare svizzeri non hanno...
In alcuni casi possono usufruire anche loro di questo servizio, anche se effettivamente non accade quasi mai. Coloro ai quali viene concessa questa possibilità, quelli che ad esempio possono avere tramite Skype un contatto diretto con il mondo esterno, senz'altro vivono meglio. Essere separati dalla famiglia e lontani dalle gioie più intime è molto difficile per la maggior parte delle persone.
Difficile: è con questa stessa parola che alcuni compagni di Assange descrivono il suo carattere. Durante il periodo di soggiorno presso l'Ambasciata Ecuadoriana, tante persone gli hanno voltato le spalle, incluso il suo stesso biografo.
Lo etichettano come egoista e narcisista, quando al contrario bisognerebbe cercare di capire i motivi che lo hanno spinto a commettere i crimini di cui è accusato. Cosa lo ha spinto a diventare un segnalatore di illeciti? Una cosa del genere richiede tantissimo coraggio, anche se lui probabilmente non in tutti i casi ha fatto i conti con la realtà mentre compiva quegli atti.
Etichettarlo semplicemente come un uomo con un carattere impegnativo sarebbe troppo avventato e non gli renderebbe giustizia. Può anche darsi che reazioni come impazienza, intolleranza alla frustrazione o impulsività facciano parte della sua personalità; si tratta in ogni caso di reazioni tipiche che si manifestano quando si è costretti a sopportare una situazione estrema. Probabilmente per lui è più difficile elaborare l'immagine che il mondo esterno si è fatto della sua persona: per i suoi sostenitori, lui è un eroe a cui è accaduta una grande ingiustizia. Invece per gli altri è il diavolo, un trasgressore, una spia.
Si dice che Assange abbia imbrattato i muri con le feci durante il suo soggiorno presso l'Ambasciata dell'Ecuador.
Ciò dimostra quanto deve essere stato disperato. Questi atti vengono compiuti più spesso da persone che non vivono appieno le proprie emozioni o non riescono ad elaborarle nel modo più giusto, ad esempio da chi è in casa di riposo o in stato di carcerazione preventiva. Nel corso della mia carriera, ho incontrato tante persone che hanno fatto cose sconcertanti durante la carcerazione; ad esempio, avvolgere interamente il proprio corpo nella carta igienica. Questi atti rientrano nei comportamenti tipici della psicosi da detenzione: la persona in questione perde il senso di connessione con la realtà.
Poco fa ha accennato al discorso delle reazioni di Assange: ci sono atteggiamenti tipici che si manifestano anche nelle persone che vivono una situazione di isolamento simile?
Se l'attività che si svolge normalmente non viene più richiesta per molto tempo, si ricade nella noia e si tende ad esternare sempre meno le proprie emozioni. Sono proprio le cose quotidiane che improvvisamente iniziano a mancare: si smette perfino di andare a fare la spesa dal grossista o di cucinare. Da questo momento in poi, l'autodeterminazione viene sostituita dalla dipendenza totale. Posso ben immaginare come l'attività naturale che componeva la personalità di Julian Assange abbia potuto trasformarsi in frustrazione e aggressività. D'altra parte, quasi tutte le persone ragionevolmente sane hanno una grande adattabilità.
E, col tempo, questa situazione d'eccezione finisce per diventare abitudine?
Soprattutto all'inizio dell'esecuzione della pena, i detenuti sono spesso molto turbati. Se non accade nulla di particolare per un periodo di tempo più lungo, prende piede una certa routine fino ad arrivare ad un cosiddetto periodo di quiete. Non appena qualcosa si smuove nuovamente, in vista di un nuovo giorno d'udienza o simili, si manifestano sentimenti come speranza o delusione e quindi di nuovo una maggiore irrequietezza.
«Nel corso della mia carriera, ho incontrato tante persone che hanno fatto cose sconcertanti durante la carcerazione»
I momenti di cambiamento sono sempre i più difficili. Ciò non significa, tuttavia, che le lunghe fasi durante le quali non accade nulla di particolare non siano estenuanti e stressanti e che non possano passare dalla disperazione alla depressione. La sessualità gioca un ruolo molto importante per i detenuti, poiché all'interno di un penitenziario non può più essere vissuta come quando si è in libertà. Questo è ancora un grande argomento tabù.
Come si comportano con lei quelle persone che - come Assange - sanno di dover restare in carcere per molti anni?
Alcuni «si infuriano», si oppongono e protestano violentemente contro la loro reclusione. Altri sono più inclini a chiudersi in sé stessi e cercano subito di capire come far fronte ad una nuova vita quotidiana limitata.
Questi ultimi imparano poi a convivere con la loro situazione o tendono per lo più a mostrare i segni di una resa?
È qui che entrano in gioco la capacità di adattamento e il senso del giudizio. Sono consapevoli degli atti compiuti e delle conseguenze che ne derivano. Più riescono a comprendere il contesto sociale, meglio possono poi accettare la reclusione come riparazione del danno fatto. Una detenzione decennale lascia sempre delle tracce dietro di sé. Ci sono persone che si isolano quando hanno pochi contatti interpersonali. I detenuti malati. consapevoli del fatto che probabilmente non usciranno mai più dal carcere. esternano perfino il desiderio di rinunciare alle loro vite, richiedendo l'assistenza di un'organizzazione pro eutanasia come Exit.
A quali espedienti ricorre una persona in detenzione per riuscire ad affrontare meglio l'isolamento?
Ho incontrato persone molto diverse. Alcuni si affidano a dei rituali e si attengono in questo senso ad una organizzazione del giorno ben precisa: pranzo alle 12:00, chiamata esterna alle 15:00 e TV alle 19:00; il tutto viene ripetuto tutti i giorni allo stesso modo. Altri continuano a voler migliorare sé stessi, dedicandosi all’apprendimento delle lingue o dando libero sfogo alla propria creatività. Anche i compagni di prigionia che mostrano un atteggiamento amichevole offrono sostegno: quando poi vengono rilasciati, i loro compagni ancora in detenzione devono poi fare i conti con un sentimento di grande delusione.
Chi ha più difficoltà ad adattarsi alla vita dietro le sbarre?
Adattarsi è molto difficile per le madri che devono vivere separate dai loro bambini spesso ancora piccoli. Lo stesso vale per quei detenuti ai quali viene comunicata una brutta notizia sullo stato di salute di qualcuno a loro caro, quando diventano consapevoli del fatto di non poter fare nulla di concreto per aiutarlo. Affrontare il mondo esterno ha un grande impatto su come ci si sente dentro.
Quale prassi adotta nel trattare i detenuti?
Le psicologhe e gli psicologi forensi trattano i delinquenti in modo da allontanare da loro la tentazione di commettere nuovi reati. Ciò implica inevitabilmente che i colpevoli debbano assumersi la responsabilità dei loro atti, riflettere sul loro comportamento ed essere più consapevoli di sé stessi. Nella fase finale, devono sviluppare migliori capacità di controllo in modo da non commettere altri crimini. Ciò non è possibile nella stessa misura con i cosiddetti prigionieri politici. In questo caso, è possibile coinvolgerli in una discussione obiettiva, che ponga gli interessati di fronte non solo alla propria prospettiva, ma anche a quella degli altri.
Di tanto in tanto si lascia sopraffare dalla compassione per i prigionieri oppure riesce a nasconderla del tutto?
Comportamenti sconcertanti o addirittura trasgressivi adottati da persone all'interno di un contesto sociale innescano un meccanismo automatico nella mente di tutti noi: il desiderio che vengano punite o un sentimento di compassione. Un esempio estremo: se vediamo una persona in una condizione disperata mentre fa l'elemosina sul ciglio della strada, in noi scatta un rifiuto e, di conseguenza, ci allontaniamo. Oppure decidiamo di aiutarla, dandole dei soldi o qualcosa da mangiare.
A volte mentre lavoro in carcere mi capita di pensare: «Ahimè, ha vissuto un'infanzia terribile. Meriterebbe una vita migliore ...». È a quel punto che per un breve momento ci si dimentica del reato commesso. Come psicologa, sono consapevole di questi meccanismi e so come gestirli. Ma ci vuole sempre un altro collega che mi dica «smettila!» e contestualmente mi ricordi i reati commessi. Noi professionisti ci scambiamo regolarmente dei pareri l'un l'altro, in modo che l'immagine che ci facciamo del trasgressore rimanga oggettiva.
Tuttavia, molti colleghi alle prime armi non riescono a restare obiettivi e si lasciano manipolare ...
Manipolazione ... una parola il cui uso viene spesso abusato! Tra l'altro si tratta di un termine che non è specifico della branca psicologica, bensì proviene dalla chimica. Nel contesto delle questioni legali, oggigiorno troviamo spesso questa parola. Ma perché avvenga effettivamente una manipolazione, occorre che siano coinvolte almeno due persone. Preferisco dire che la manipolazione consiste nell'essere intimati o, per meglio dire, provocati da qualcuno e per questo bisogna restare vigili. Semplicemente nessuno può decidere della vita di qualcun altro in questo modo. Almeno non prima che qualcuno gli punti una pistola alla testa o un coltello alla gola.
Informazioni sulla persona intervistata: Leena Hässig Ramming ha studiato psicologia, diritto penale e diritto processuale penale. È presidente della Società svizzera di psicologia forense nonché Presidente del Consiglio di fondazione della Fondazione svizzera contro la violenza su donne e bambini. Hässig ha lavorato per oltre 30 anni come psicoterapeuta presso il Servizio di psichiatria forense dell'Università di Berna. Oggi lavora nel suo studio di psicologia legale a Berna e nel centro antiviolenza di Berna.
Questi criminali sono ancora ricercati dalla polizia