24 ottobre 2001 Beppe Savary: «Il rogo nel Gottardo? Una situazione da forno crematorio»

Di Paolo Beretta

24.10.2021

Alle 9.39 della mattina del 24 ottobre 2001 due camion si scontrano a poco più di un chilometro dall'entrata ticinese della galleria del San Gottardo. Un camionista ubriaco, da poco entrato nel tunnel, ha invaso la corsia opposta provocando il frontale. Nell'incidente sono morte 11 persone.
Alle 9.39 della mattina del 24 ottobre 2001 due camion si scontrano a poco più di un chilometro dall'entrata ticinese della galleria del San Gottardo. Un camionista ubriaco, da poco entrato nel tunnel, ha invaso la corsia opposta provocando il frontale. Nell'incidente sono morte 11 persone.
KEYSTONE

Pioniere della medicina d’urgenza in Svizzera e in Ticino, 20 anni fa è stato tra i primi medici sul posto per il rogo nel tunnel del San Gottardo, costato la vita a 11 persone. Il Dr. med. Beppe Savary-Borioli ci spiega come si sono organizzate le operazioni di soccorso quel 24 ottobre, ci indica perché un incendio in galleria è la situazione più pericolosa e come affrontarla.

Di Paolo Beretta

Dottor Savary, si ricorda dove era quando è avvenuto l’incidente nel Gottardo?

Mi ricordo molto bene dove ero. All’epoca, tra le altre cose, ero direttore sanitario della Croce Verde di Lugano e con dei colleghi mi trovavo in visita al centro d’informazione del cantiere AlpTransit a Pollegio. Uscendo dall’edifico abbiamo visto una colonna di fumo salire sopra Airolo. Abbiamo subito chiamato per avere informazioni. Risposta: «Un incendio nel Gottardo». Siamo partiti all’istante con le sirene spiegate e in pochissimi minuti eravamo sul posto. Una velocità di intervento incredibile.

Qual è stata la prima reazione?

Ero uno dei primi medici sul posto. Ci siamo recati al centro di pronto intervento per farci dare le ultime informazioni. I pompieri, equipaggiati per lottare contro le fiamme, il calore e il fumo, stavano per entrare nel tunnel. Assieme al dottor Michele Bonato, direttore medico di Tre Valli Soccorso, sono entrato nel tunnel d’emergenza per fare un sopralluogo.

Cosa ha visto?

Per farci un’idea più concreta della situazione, abbiamo aperto un po’ una delle porte laterali. Per via del fumo non potevamo aprirla molto, ma quel poco che siamo riusciti a vedere ha confermato le prime ipotesi: come soccorritori non saremmo potuti entrare e non c’era più nulla da fare per le persone rimaste nella galleria.

Come mai questa certezza fin dall’inizio?

Ho vissuto diversi incendi, ma mai con così tante vittime e non in un ambiente così chiuso. Userò parole un po’ forti per descrivere la scena: era una situazione da forno crematorio per quanto era intenso il calore, soprattutto per chi si trovava vicino al camion in fiamme . Poi c’era molto fumo. Impossibile sopravvivere dentro il tunnel in quelle condizioni.

Immagini forti, che ricorda ancora oggi.

Sì, quella che più mi è rimasta in mente è quella dei mucchietti di cenere, l’unica cosa che rimaneva delle persone che non erano riuscite a salvarsi.

Dr. med. Beppe Savary-Borioli
Nella foto Beppe Savary ForumAlternativo durante la conferenza.© Ti-Press / Pablo Gianinazzi
Beppe Savary nel 2020. Ti-Press / Pablo Gianinazzi

Il Dr. Med. Beppe Savary-Borioli, classe 1952, è uno dei padri fondatori della medicina d’urgenza e di catastrofe in Svizzera e in Ticino. Dopo gli studi in medicina a Zurigo, terminati nel 1978, il percorso formativo nella medicina urgentistica lo porta negli Stati Uniti, in Canada, in Francia, in Austria, in Germania, in Italia e di nuovo in Svizzera. Nel 1981 è internista alla Carità di Locarno. Si trasferisce in Valle Onsernone, dove sarà per quasi 40 anni il medico di riferimento per la popolazione e per il Centro Sociale Onsernonese. Nella sua carriera ha ricoperto svariate cariche ai vertici, tra le quali direttore sanitario della Croce Verde di Lugano, presidente del collegio dei direttori sanitari della FCTSA, la federazione dei servizi autoambulanza e della base Rega del cantone Ticino, direttore sanitario del SALVA, il Servizio Ambulanza Locarnese e Valli. È stato responsabile medico del Soccorso Alpino nella zona 9 (Ticino e Grigioni italiano). È stato pure il medico ufficiale del Locarno Film Festival per diversi anni. Detiene il record ticinese di certificati di morte che portano la sua firma. Non sono stati contabilizzati ufficialmente, ma sono almeno 2.000. 

Nelle prime ore alcuni media ipotizzavano un bilancio pesante. Parlavano addirittura di 90 morti.

Avevamo visto relativamente poche carcasse di veicoli quindi sapevamo che le cifre della stampa non erano realistiche. Avevamo stimato al massimo 15 morti. Il bilancio ufficiale, stilato due giorni dopo, è stato di 11 vittime. Le persone, al contrario di quello che si può pensare, non sono morte bruciate a causa delle fiamme, ma asfissiate a causa del fumo. Nei roghi è spesso così.

Perché?

Perché la combustione provoca gas molto nocivi, soprattutto il monossido di carbonio, il CO, e i gas cianidrici, i CN. Per curare qualcuno che ha inalato CO si dà molto ossigeno. Per l’intossicazione da CN invece la situazione è più complicata perché si fissa sui mitocondri e blocca la respirazione cellulare. Per combatterlo ci vuole il Cyanokit, un antidoto molto costoso e disponibile in quantità limitata.

Cosa avete deciso di fare?

In qualsiasi intervento d’urgenza un incendio è il peggior scenario possibile. Perché hai a che fare con una situazione nella quale hai quelle che in francese si chiamano «le quattro B»: «Les brulés, les blessés, les blastés e les bouleversés», cioè hai persone ustionate, persone ferite, persone lesionate da esplosioni e persone che sono vittime degli effetti causati dalla mancanza d’ossigeno e dai  gas tossici. Visto lo scenario in cui ci trovavamo, abbiamo preparato un PMA, un posto medicalizzato avanzato, con le bombole dell’ossigeno e le attrezzature per misurare l’intossicazione da monossido di carbonio. Potevamo potenzialmente infatti avere a che fare con persone che avevano inalato fumo.

È stato il caso? Quanti pazienti avete avuto?

Le persone che sono riuscite a salvarsi camminando lungo il cunicolo di salvataggio sono state circa una ventina. Nessuna di loro ha avuto bisogno di un intervento medico urgente. L'unico paziente che in realtà abbiamo avuto è stato un pompiere urano che è rimasto intossicato perché non si è protetto. Tra gli automobilisti tutti avevano bisogno di potersi sfogare. Abbiamo organizzato cibo e bevande. Parlavano tra di loro. Viste le diverse nazionalità e lingue abbiamo fatto da interpreti, così tra di loro si è creata quella che in francese chiamiamo una «communauté de rescapés».

Ci può spiegare di cosa si tratta?

Grazie ai corsi di medicina di catastrofe fatti in Francia sapevo che ci si deve sempre occupare molto bene dei sopravvissuti. Non puoi semplicemente dire: «Non sei ferito fisicamente quindi puoi andare» perché non è così. La persona ha appena vissuto un’esperienza traumatica. Quindi è importante ascoltarla.

Cosa avete fatto concretamente?

Li abbiamo aiutati a contattare i famigliari e gli amici, come pure, per alcuni di loro, a organizzare la continuazione del viaggio. Siamo rimasti a disposizione per ogni evenienza. Abbiamo fatto in modo di lasciarli interagire tra di loro, che si sentissero in un posto sicuro. Abbiamo lasciato che si raccontassero la loro esperienza. Così facendo si evita la nascita dei sensi di colpa nei quali ci si domanda, per esempio, tipicamente: «Ma perché io son vivo e l’altra persona no?». Alla fine li abbiamo ancora fatti visitare tutti all’Ospedale San Giovanni a Bellinzona.

In pratica con loro avete fatto un debriefing?

No. Il termine corretto è defusing. Il debriefing è un’altra cosa, è una pratica più strutturata che interviene più tardi. Si mette una certa distanza temporale con l’evento. Ho fatto una formazione specifica per essere un debriefer. Ci son due parti fondamentali in un debriefing: la prima è quella di farsi raccontare nei minimi dettagli cosa si è captato con i propri sensi. La seconda è chiedere come si è agito e quali effetti hanno avuto le nostre azioni e le nostre impressioni su di noi. In questo modo escono gli stati d’animo, come anche, per esempio, il senso d’impotenza di fronte ad alcuni avvenimenti. Alla fine si chiede alla persona se si può mettere una pietra sopra l’accaduto. O se c’è bisogno di altro supporto. Il debriefing non è mai imposto, è un'offerta.

Ma allora cosa è il defusing?

Il defusing avviene subito dopo l’evento a cui si ha preso parte o nel quale si è rimasti coinvolti. Per farla semplice, un esempio di defusing per i pompieri è andare a bersi una birra tutti insieme finito un intervento. Ci si racconta cosa è successo, proprio come hanno fatto i sopravvissuti del Gottardo nel nostro posto medicalizzato avanzato.

Si ricorda di racconti particolari di chi si è salvato?

Sì, mi ricordo di due testimonianze. Quella di una coppia e quella di un uomo. La coppia raccontava del fatto che uno dei due voleva tornare indietro a cercare il cane. Ma l’altro, dicendo che era inutile perché l’animale si sarebbe salvato da solo, l’ha convinto a fuggire. Quel pensiero che il cane se la sarebbe cavata da solo gli ha salvato la vita. Avessero esitato anche pochi istanti probabilmente non ce l’avrebbero fatta. Poco dopo mi sono ricordato che tra i mucchi di cenere ne avevo visto uno più piccolo degli altri. Ho capito quindi che il cane in realtà non ce l’aveva fatta.

E il secondo racconto?

È quello di un signore che mi ha raccontato come è riuscito a salvarsi. Siccome il fumo era molto denso e non vedeva più nulla non è rimasto in piedi, ma ha iniziato a strisciare. Arrivato vicino a una porta di sicurezza si è rialzato. Ha cercato di aprirla, ma non c’è ruscito subito. Era molto difficile poiché le porte sono sotto pressione positiva. Ha capito però che, anche se sfinito, doveva riuscire ad aprirla per salvarsi. Per fortuna ce l’ha fatta.

In queste situazioni salvarsi è davvero una questione di attimi.

La storia di questo signore è un ottimo insegnamento di cosa si deve fare quando ci si trova in un incendio: non camminare, ma strisciare, possibilmente sotto il fumo, che è leggermente più alto perché più caldo. Un esempio storico per capire è l’incidente di Kaprun in Austria nel 2000. La funicolare ha preso fuoco nel tunnel. Si sono salvati in pochi. Solo quelli che hanno avuto il coraggio di andare in discesa contro il fumo. A un certo punto sorpassi il punto in cui brucia e il fumo non c’è più. Se invece sali rimani nel fumo.

Una cosa mi ha colpito in quello che mi ha raccontato e a cui forse, anche se banale, non si pensa: col fumo, anche con molta illuminazione, la visibilità si riduce molto e in fretta.

Sì, è vero. Poi dobbiamo pensare che 20 anni fa le uscite di sicurezza non erano così ben illuminate e segnalate come oggi. Ho l’abitudine, in qualsiasi tunnel io entri, di guardare dove è situata la prossima uscita di sicurezza. Può essere vitale saperlo. Lo è stato per l’uomo che si è salvato striciando. Mi ha detto che sapeva che non era lontano da una via di fuga. Avesse strisciato in un’altra direzione non ce l’avrebbe fatta. Oggi abbiamo anche i telefonini che possono tornarci utili con la luce che fanno. Sono piccole cose, ma che possono salvarti la vita. Inoltre, principio fondamentale, quando c’è un incendio, l’unica cosa a cui devi pensare è fuggire, metterti in salvo nei cunicoli di sicurezza e non preoccuparti di recuperare oggetti.

A livello di medicina d’urgenza, cosa vi ha insegnato l’incendio nel San Gottardo?

L’evento ci ha dato la conferma che il nostro dispositivo d’intervento così come pensato per catastrofi maggiori era adatto. Per esempio, in pochissimo tempo sono arrivati sul posto diversi elicotteri. Ma per fortuna non ne abbiamo avuto bisogno perché non c’erano pazienti.

Quel 24 ottobre 2001 per lei è stata davvero una giornata lunga, perché una volta trasferiti i superstiti a Bellinzona si è dovuto occupare di un altro compito.

Sì. Grazie alla formazione avuta in Francia, sapevo che è anche molto importante l’aspetto comunicativo. 20 anni fa non c’erano i servizi d’informazione delle forze d’intervento organizzati come oggi. Poi era un evento con una valenza europea, forse il primo così importante successo in Ticino in tempi moderni. In pochissime ore, infatti, ad Airolo sono spuntati come funghi telecamere e giornalisti, così come una selva di antenne paraboliche. Arrivavano da ogni angolo d’Europa. Anche i media statunitensi avevano inviato i loro corrispondenti.

Non è stato però l’unico ad andare davanti ai microfoni.

Finito l’intervento molti soccorritori sono rientrati. Sono rimasto con il collega Fabio Fransioli, che era il medico di Airolo. Ci siamo divisi un po’ il lavoro. Dovevamo spiegare cosa era successo e che cosa avevamo fatto come soccorritori. Sapevamo che i giorni successivi l’attenzione mediatica si sarebbe spostata su altri aspetti e che non avremmo più dovuto andare noi davanti alle telecamere. Per competenze linguistiche mi sono occupato specialmente dei media germanofoni e di quelli in cui si doveva parlare inglese, come la CNN o la BBC. Ho poi chiesto all’airolese Fabio Pedrina, allora consigliere nazionale e presidente dell’iniziativa delle Alpi, di aiutarci con i giornalisti belgi, siccome il tunnel era importante anche per Bruxelles.

Le frasi celebri di Beppe Savary
Beppe Savary ad Airolo quel 24 ottobre 2001.
Il Dr. med. Beppe Savary-Borioli durante le operazioni di soccorso ad Airolo quel 24 ottobre del 2001. Ti-Press / archivio

Nel settore della medicina d’urgenza e di catastrofe, dove ha introdotto a livello nazionale il concetto di pre-triage dei pazienti, perfezionando il concetto internazionale di triage, e dove ancora insegna, sono celebri alcune sue frasi, tra le quali: «In medicina d’urgenza le cose importanti sono semplici e le cose semplici sono importanti», «Il nostro medicamento più importante è quello nelle fiale più grosse: è l’ossigeno» e poi «Nella medicina d‘urgenza il teamwork è vitale».

È da poco in pensione, ma dimostra ancora molta passione per la medicina d’urgenza. Dove è nata?

Oggi mi rendo utile per esempio al centro vaccinale a Giubiasco. Questa passione? In realtà ho fatto medicina d’urgenza prima ancora che esistesse ufficialmente. Durante il mio internato di chirurgia mi sono reso conto che i pazienti più gravi dovevamo andare a prenderli noi sul luogo dell’incidente, non aspettare che arrivassero.

In che senso?

All’epoca, parlo degli anni ’80, non c’era il 144. Chi aveva bisogno chiamava l’ospedale. Si ricevevano telefonate del tipo: «Venite, c’è stato un incidente sull’autostrada e una persona non sta bene». Partiva allora l’autolettiga guidata dal giardiniere, accompagnato dal tuttofare, che all’ospedale di Rorschach si chiamava Schlachter (macellaio in tedesco, ndr.). Con un collega, che è poi diventato ginecologo, abbiamo deciso di andare con loro qualche volta. Poco dopo erano loro a chiederci di accompagnarli.

Ma quindi il concetto di medici d’urgenza ancora non c’era?

Sono stato tra i primi in Svizzera a partecipare a un corso pilota per medici d’urgenza. All’epoca non c’era altro. Mi sono poi perfezionato in Francia ottenendo un diploma universitario in «Médecine de catastrophe». E come si è visto con l’evento più catastrofico accaduto in Ticino 20 anni fa, le competenze acquisite grazie a quella formazione e ad altri corsi sono state molto utili.