Multinazionali responsabili «È molto probabile che sia solo una tigre di carta»

Di Gil Bieler

1.12.2020

Vicino Kabul, un ragazzo afgano lavora anziché andare a scuola.
Vicino Kabul, un ragazzo afgano lavora anziché andare a scuola.
EPA/Hedayatullah Amid

Le imprese devono rivedere il loro operato dopo il fallimento dell’iniziativa per multinazionali responsabili, respinta per poco? No, risponde Andreas Brenner, etico degli affari, che teme addirittura delle conseguenze negative per ciò che riguarda le preoccupazioni all’origine dell’iniziativa.

Signor Brenner, avevamo già discusso tanto in Svizzera a proposito delle conseguenze delle attività commerciali internazionali?

No, e ciò costituisce in sé un grande successo per coloro che sono all’origine dell’iniziativa. C’è stato un profondo dibattito all’interno della società svizzera – durato per un anno intero – riguardo la responsabilità delle grandi aziende nei confronti dell’uomo e della natura. Il fatto che la natura e l’uomo siano percepiti come una sola ed unica entità secondo me è il valore aggiunto apportato da questo dibattito.

Quest’idea è dunque nuova?

Da tempo affrontiamo le questioni della sostenibilità e abbiamo visto, ad esempio, le foto delle miniere di Glencore che mostrano i danni ambientali;  ma nel corso di questa discussione, abbiamo tutti imparato che la sostenibilità non comporta soltanto un aspetto ecologico, ma anche un aspetto sociale. E che non possiamo dissociare questi due risvolti, né opporli. Ad esempio, se a qualcuno interessa solo la protezione della natura, questa non è una politica sostenibile.

A proposito di Andreas Brenner
Andreas Brenner è professore di filosofia all’Università di Basilea e all’Alta scuola della Svizzera specializzata del nord-ovest (FHNW) a Basilea. Brenner, che è anche autore, affronta questo tema in «WirtschaftsEthik. Das Lehr- und Lesebuch» oltre che in «CoronaEthik. Ein Fall von Globalverantwortung», due opere in tedesco pubblicato dalla casa editrice Königshausen & Neumann.
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Andreas Brenner è professore di filosofia all’Università di Basilea e all’Alta scuola specializzata della Svizzera del nord-ovest (FHNW), a Basilea. Brenner, che è anche autore, affronta questo tema in «WirtschaftsEthik. Das Lehr- und Lesebuch», oltre che in «CoronaEthik. Ein Fall von Globalverantwortung», due opere in tedesco pubblicate dalla casa editrice Königshausen & Neumann.

Alla fine, il 50,7% della popolazione si è pronunciata a favore di una maggiore responsabilizzazione delle multinazionali. Ciò l’ha sorpresa?

Facevo parte dei numerosi osservatori che si attendevano un tasso di approvazione ancora maggiore. Sono dunque abbastanza sorpreso che il «Sì» non sia stato ancora più votato. L’allarmismo di alcune grandi aziende ha senza dubbio funzionato.

Il fallimento dell’iniziativa apre la strada al controprogetto indiretto. Esso prevede un obbligo di dichiarazione e di diligenza ragionevole più approfondita, ma nessuna responsabilità. Si tratta di un controprogetto «alibi», come denunciano i suoi detrattori?

È in effetti molto probabile che sia soltanto una tigre di carta. Nel peggiore dei casi, ciò potrebbe avere addirittura un effetto negativo: le aziende potrebbero infatti utilizzare questi rapporti come degli strumenti di relazioni pubbliche gratuite e mettere l’accento sul fatto che hanno rispettato al meglio i loro obblighi. Ciò renderebbe la discussione più difficile e genererebbe de facto una situazione più grave di quella attuale.

«Questa argomentazione secondo la quale correre da soli non funziona viene ripresa spesso (...). Ma è falsa.»

Cosa la rende cosi pessimista?

Non bisogna dimenticare che, in fin dei conti, solo una piccola cerchia di imprese sarebbe stata interessata da una maggiore responsabilità. Non credo neanche che gli svizzeri provino una diffidenza generalizzata nei confronti dell’economia – ma il fatto è che non si fidano di certi attori dell’economia. Non c’è alcuna ragione di sperare che le aziende cambino la loro politica a causa del nuovo obbligo di dichiarazione. Ciò non cambierà niente.

Il Consiglio federale sottolinea che intende privilegiare un approccio coordinato a livello internazionale.

Questa argomentazione secondo la quale correre da soli non funziona viene ripresa spesso: ha probabilmente fatto effetto sul piano politico e contribuito a questo risultato di misura. Ma è falsa. In numerosi ambiti, ogni attore può far muovere le cose ed è sempre necessario che qualcuno faccia il primo passo. La Svizzera avrebbe potuto mostrare ai paesi stranieri che non tollera le politiche aziendali che non rispettano i diritti fondamentali dell’uomo o le norme in materia di protezione dell’ambiente.

Quali partner avrebbe la Svizzera per far muovere le cose in questi settori?

L’ONU ha già fatto un passo in questa direzione nove anni fa, stabilendo i Principi direttivi relativi alle aziende e ai diritti dell’uomo. Si tratta di un documento completo, che si spinge ancora più in là rispetto all’iniziativa per multinazionali responsabili. Tuttavia, le Nazioni Unite non hanno una struttura  governativa e ciò non ha dunque avuto un impatto concreto. Ad ogni modo, questi progressi sono importanti per sensibilizzare la popolazione sugli abusi in atto. E come in Svizzera, in molti altri paesi europei c'è un'opinione pubblica critica che afferma di non sostenere le aziende che generano rischi ad altre persone o alla natura.

Anche la nostra percezione come consumatori è cambiata in maniera sostenibile?

Bisogna sperare che il tema non scompaia del tutto. Tuttavia, è difficile prevedere le cose e l’anno 2020 non ha smesso di sorprenderci.

La pandemia di coronavirus ha tra l'altro messo in evidenza i rischi che comportano le catene di approvvigionamento mondiale. Ciò potrebbe portare a una de-globalizzazione?

Questa supposizione è ritornata di continuo negli ultimi mesi ed è assolutamente possibile che ci sia un contromovimento alla globalizzazione. In altre parole, che i diversi Stati vogliano ridiventare un po’ più indipendenti. Ma se prendiamo questa strada, dobbiamo anche tener conto delle conseguenze per l’economia mondiale e per le parti più deboli di questo sistema.

Ma in tempo di crisi, la prima cosa è che ciascuno corre per sé, non è vero?

Non dovrebbe essere questo il caso: se uno Stato decide di far ritornare in loco il processo di produzione, è ovviamente una decisione legittima – ma da un punto di vista etico-responsabile, conviene anche esaminare gli effetti sui paesi poveri. Noi – ovvero i paesi ricchi – creiamo da decenni delle monocolture industrali in alcuni paesi stranieri: in altri termini, abbiamo reso altri paesi dipendenti dai nostri ordini. Se tutto ciò dovesse essere rapidamente invertito, numerosi paesi poveri sarebbero in grande crisi. Dovremmo ammortizzare le conseguenze negative di un tale sconvolgimento.

Quali sarebbero gli interessi della Svizzera?

Delocalizzando i nostri posti di lavoro, abbiamo anche accettato delle norme ambientali meno stringenti o dei salari meno elevati – e questo, con l’obiettivo di far abbassare i prezzi. Se accompagniamo ora questi paesi nel loro assestamento strutturale, dovrà trattarsi di una compensazione equa, non nel senso di un regalo, ma nel senso di una riparazione. In effetti, è chiaro che dopo diversi decenni nel corso dei quali abbiamo costituito una monocoltura economica, le regioni o i paesi coinvolti si ritroverebbero senza alcuna alternativa. Se dovessimo riportare i siti di produzione in Occidente, bisognerebbe dunque aiutare a sviluppare un’economia indipendente in questi paesi.

La Cina viene contata tra i paesi poveri?

Ovviamente, la Cina è oggi un’economia molto forte, ma se gli ordini si bloccano da un giorno all’altro, il paese sprofonderebbe di nuovo in una crisi gigantesca. Ma bisognerebbe ancora di più interessarsi all’India e a una gran parte dell’Asia e dell’Africa.

Gli svizzeri sono anche pronti a pagare di più pur di avere la coscienza pulita?

In una certa misura, lo siamo. Ciò si vede nel caso dei prodotti bio, acquistati da un numero sempre maggiore di consumatori. Ma per altri prodotti, non si può giustificare il prezzo superiore con l'argomentazione di una migliore qualità. Acquistando delle verdure bio, ci si attende un prodotto più sano, il che in fin dei conti è una motivazione egoista. Se si aspira a un’economia responsabile, non c’è solo questo. Dobbiamo renderci conto prima di tutto che i prezzi che abbiamo pagato per molto tempo e che paghiamo ancora oggi sono troppo bassi – e che così facendo noi incoraggiamo dunque le pratiche di sfruttamento.

La Cina diventa sempre più presente a livello mondiale, grazie agli accordi conclusi con alcuni paesi africani o grazie alla nuova via della seta, che copre gli scambi con più di 60 paesi. È poco probabile che ciò contribuisca a rafforzare i diritti dell’uomo e le norme ambientali.

È vero, la Cina non si cura quasi per nulla o affatto di tutte queste norme; in Africa, essa conduce addirittura una politica neocoloniale. Ciò dimostra che se se si desidera rafforzare gli obiettivi dell’iniziativa per multinazionali responsabili, la Cina non sarebbe certamente un partner appropriato per la Svizzera.

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