L'analisiMyanmar: la scommessa persa di Aung San Suu Kyi
SDA
1.2.2021 - 22:09
Per vent'anni Aung San Suu Kyi è stata vista come una santa che ha sacrificato la sua vita per amore del suo Paese. Quando è finalmente andata al potere, è stata timida verso i militari, e silente al limite della complicità sui loro crimini contro i Rohingya. Se era un piano per tenerseli buoni, non ha funzionato: dieci anni dopo essere stata rimessa in libertà, Suu Kyi è ora di nuovo prigioniera dell'esercito.
Al momento, la parabola della 'Signora' non sembra destinata al lieto fine. Troppo rosee le aspettative sull'onda dell'investitura popolare, troppo severi i giudizi su quanto abbia effettivamente cambiato il Paese, in un sistema di potere in cui lei ha l'amore della gente, ma le armi e le risorse finanziarie sono nelle mani dei suoi rivali.
Ma ormai, a 75 anni e senza aver coltivato un successore, è lecito chiedersi se Suu Kyi – anche quando sarà rilasciata – sia ormai stata definitivamente ingabbiata da un esercito che intende continuare a gestire il potere.
Non era questo il futuro che avevano in mente le centinaia di migliaia di birmani che l'ascoltarono euforici in un comizio a Rangoon nel 1988, nel pieno di manifestazioni pro-democrazia poi represse nel sangue.
Scelse il Paese al posto del marito
Lei, dopo una vita adulta in Gran Bretagna, era appena tornata in patria per assistere la madre malata. Sembrava il suo destino: figlia dell'eroe dell'indipendenza Aung San, assassinato quando lei aveva solo due anni, Suu Kyi era il volto perfetto per liberare la Birmania da un regime che la strozzava da un quarto di secolo.
Il suo impegno per la democrazia le costò un totale di quindici anni di detenzione, in maggior parte trascorsi nella sua villa a Rangoon.
Scelse il Paese al posto del marito, morto di cancro mentre lei era agli arresti, e a due figli adolescenti che ritirarono per lei il premio Nobel per la Pace nel 1991 e che da allora – specie il primogenito, con cui non ha più rapporti – sono emotivamente segnati.
Una «primavera birmana»
Il contrasto tra una donna giovane ed erudita che si sacrifica per la causa della democrazia e i torvi generali che tenevano il Paese in povertà tenne alta la questione birmana nella comunità internazionale.
Tra il 2010 e il 2011, cambiò tutto molto in fretta: i generali imbastirono una transizione verso la democrazia, Suu Kyi e centinaia di altri prigionieri politici furono liberati, tornò la libertà di espressione.
Si parlò di «primavera birmana», culminata nel trionfo elettorale di Suu Kyi nel 2015 con lei a capo del governo e scene di giubilo davanti a «mamma Suu» che coronava il sogno di un popolo.
Quanti passi ancora da fare?
Ma condividere il potere con un esercito che mantiene enormi interessi economici, e non intende farsi controllare dal governo civile, ha offuscato la stella di Suu Kyi. In patria, dove rimane estremamente popolare, ha ridotto gli spazi per la libertà di espressione, e le minoranze etniche non credono più alla sua sincerità nel processo di pace.
All'estero, la sua reputazione è ormai infangata dopo la sua prolungata difesa di un esercito che ha cacciato 700'000 Rohingya dal Paese dopo orrendi crimini, tanto che numerose onorificenze le sono state ritirate. Lei non è mai riuscita a comunicare la sua visione.
Ha sempre detto che la democrazia va costruita passo dopo passo, con un paziente lavoro di negoziato dietro le quinte. Ma ora che l'esercito ha ripristinato la dittatura, chissà quanti passi ancora ci vorranno.